“…Nun te preoccupa' guaglio', ce sta o' mar' for'.Ce sta o' mar' for', ce sta o' mar' for' Arret' 'e sbarr', sott' o' ciel' ce sta o' mar' for…”[1]
Non ti preoccupare, sotto il cielo ci sta il mare fuori...
E i passi rallentano all’andare di un peso infinito, dove anche il canto della vita sta per spegnersi.
Qualche anno fa ho avuto la fortuna di partecipare a dei laboratori di poesia con alcuni detenuti del carcere di Regina Coeli.
La prima volta nel cortile che portava alla “stanza della poesia”, i fiori rampicanti annunciavano l’ingresso al freddo di uno spazio costruito in altezza.
Quella prospettiva profonda, a sovrastare il giardino, mostrava i grandi finestroni sbarrati.
Sopra gli occhi, il cemento delle celle prendeva la direzione del cielo, disegnando una disposizione circolare. Tutto iniziava e finiva nel mezzo di un viaggio a metà: da dentro a fuori.
Immaginari percorsi sembravano schiudersi sulla scia di lineamenti ancora imprecisi. Trascinandosi dietro la magia dei sogni. Della libertà.
In quell’atmosfera eterea ma nebulosa, si udiva il cigolio dei cancelli, a segnalare che , anche per noi, era scattato l’ interruttore.
… Da fuori a dentro...
Era l’inizio di un tempo che cullava un volo strozzato ma audace. Protetto dal dispiegarsi laborioso delle sue ali.
Nel corridoio si era formata una lunga coda, mentre la fila ci guidava in una nuova forma di “insieme“.
I muri lacerati dalle colature di colore si illuminavano al bacio del sole con il pavimento. Perfino l’ultima pietra appariva viva.
“…Aret’ê sbarre, sott”o cielo, ce sta ‘o mare fore
Ce sta ‘o mare fore, ce sta ‘o mare fore …”
In raccolta, tra i timidi cartocci di qualche foglio, loro aspettavano il turno alla lettura. Si sentivano le voci schive, tra gli spasmi dei singhiozzi. E il battito del cuore abbracciava un’unica verità.
Albeggiavano confessioni e paure. Dalle pagine fuoriuscivano storie tratteggiate, interrotte, predette.
Come sassi scolpiti ma ancora pronti al prossimo lancio.
Nel soffio di quelle confessioni, che avevano annullato ogni differenza, caddero i lacci e le argentate catene. La speranza salutava un tempo spento, ritrovando la sua fiducia.
Quando la lancetta tremò di nuovo, la polvere si era già porta via ogni tempesta.
Il vento sussurrava alle sue promesse l’eternità.
“…C’aggio fatto ‘e male?”
Tutt”e juorne, tutt”e juorne penzo ô mare (penzo ô mare)…”
L’orizzonte chiamava, portando con sé il profumo dell’esistenza.
E si sentiva un grido, come il faro di un piovigginoso andare:
Il cielo è la mia casa
Il mio unico momento …
[1] Testi tratti dal brano “’O mar for”, Matteo Paolillo