Ho sempre avuto l’impressione che non avrei potuto abitare che la mia città. Roma non si racconta, si vive…con le sue strade, i sampietrini, le fontane, i ponti, il Fiume. Ogni posto è ispirazione qui, ma è l’autunno che mi fa sentire più vicina alle mie radici. Le passeggiate in via Merulana, tra gli alberi spogli e il rossiccio delle foglie cadute a terra con il pensiero che va al futuro, a quello che potrà sorgere dopo.
Mi capita spesso di sentirmi in sintonia con il luogo in cui vivo e non solo per una questione affettiva. A volte mi sento invincibile per questo…per sentirmi tanto destinata alla mia Roma. Eppure se fossi nata in un’altra epoca, l’avrei scelta di nuovo. A volte dimentichiamo le nostre fortune. Per esempio, io avuto la fortuna di nascere nel cuore di Roma, al Colosseo. Ma è proprio dove c’è più bellezza che lo sguardo è catturato dal diverso, da ciò che è altro rispetto alle nostre certezze, a quello che conosciamo e che accettiamo essere universalmente giusto. Non faccio parte di loro, della massa. Sono molto affascinata da ciò che è altro, dalle storie di chi viaggia, dai sognatori. Penso che avere un sogno nelle tasche, un obiettivo a cui si è destinati, dia un senso più alto alla nostra esistenza.
Nella mia città si possono fare lunghe passeggiate e lunghi pensieri tra i passi. Mi capita spesso di traversare posti che sanno di quotidiano, di sentirli cari anche solo nel ricordo di ciò che hanno rappresentato.
Il Colle Oppio e la fanciullezza. Il collegio romano e la maturità. E ancora il tratto che va da piazza Venezia a largo Argentina, piazza Vittorio, lo stradone di San Giovanni, fino a casa. E’ qui che ho vissuto tutta la mia vita. Gli alberi di ciliegio, il profumo di caffè, una sigaretta sul muretto, il Cipresso davanti alla finestra. Di nuovo quelle foglie a terra, tantissime foglie, gialle, marroni, rosse… gli alberi spogli e la corsa per essere “grandi”, dopo la Ruggero Bonghi. Non sono forse i luoghi della nostra vita a raccontare qualcosa di noi? Sì, lo sono per me.
Ricordo di non sentire il peso dello zaino durante la salita verso la scuola. Lungo la strada avevo l’abitudine di inchinarmi alla vista dell’altare numero uno e dell’altare numero due, a poca distanza tra loro. Quella visione sacra tutte le mattine mi metteva di buon umore e forse un po’ in guardia per la nuova giornata che avrei dovuto affrontare: se fossi stata brava, da lassù lo avrebbero saputo e protetto me e la mia famiglia. A pensarci oggi, credo che quella fede non avrebbe fatto tanto male nemmeno agli adulti.
Vorrei sfatare il luogo comune che i figli minori siano i più viziati. Essere la più piccola di casa ha pure i suoi svantaggi. Cresci pensando che non potrai disilludere alcuna aspettativa riposta dai tuoi genitori, perché senti che non avranno altri figli a cui destinarla, se con i primi non è andata. E quindi ti senti addosso questa responsabilità, tu che sei piccolo ma già grande. Questo ti porta a commettere una serie di sbagli. Sbagli perché non percorri mai una strada che sia la tua, nel senso che sei tu a pensarla, a desiderarla. Così commetti un doppio errore: aver seguito qualcosa che non ti appartiene e aver sbagliato comunque. Solo più tardi ci accorgiamo che avremmo potuto caricarci di meno, perché è solo rimanendo fedeli a se stessi che possiamo sentirci più liberi, anche nell’errore. E questo ci aiuta ad affrontare le sconfitte come una caduta e non come un fallimento. Tuttavia mi sento serena e sto recuperando. Ecco ritornare l’autunno.
Mi rivedo tanto in mia nipote Francesca. La sua saggezza, la sua fragilità. Ora è lei la più piccola della famiglia, il nuovo “contenitore” dei nostri sogni. Dei sogni degli altri. Di tutti quelli che le vogliono bene, troppo bene, un bene immenso, soffocante. Sarà difficile ad un certo punto crescere, dimenarsi da quelle catene buone di chi l’ha amata. Perché la vita è così: nasciamo e moriamo soli.
Qualche tempo fa sono stata invitata alla mostra della mia cara amica, Nina. Con lei ho condiviso parte del tempo che la vita ha voluto darle. Ci assomigliavamo molto.
In quell’occasione le ho sentito dire che l’arte, in qualsiasi sua forma, rischia di essere percepita come autoreferenziale…anche quando cerchi il distacco, per raccontare di ciò che è altro da te. Ma noi non facciamo parte di loro, della massa e tutto ciò che è altro da noi siamo noi allo stesso tempo. Tutto quello che ascoltiamo, che ci viene raccontato, le buone e le cattive storie degli altri diventano anche le nostre, ci arricchiscono, sono confronto, scambio. Sì, io sono autoreferenziale.
Mi ricordo di una vecchia signora che, a proposito di un nostro caro, mi diceva come l’essere umano debba realizzarsi necessariamente entro i quarant’anni e raccogliere quindi i frutti gli anni a venire. All’epoca quella confidenza mi lasciò triste. Pensavo a quel caro che i quaranta li aveva passati da un pezzo e pensavo a me, a quanto mi restava prima di quella soglia. Oggi che ho superato quel punto di non ritorno, credo che quel pensiero sia un grande limite. Lo è per se stessi e per gli altri. Pensare che la vita si fermi ad un certo punto è smettere di vivere e forse fa anche comodo credere che sia davvero così. Quando studiavo all’università per un esame di economia, ricordo di aver letto qualcosa di simile: che c’è una naturale flessione dopo una certa età e chi ha seminato bene, raccoglierà poi. Anche quella teoria mi aveva lasciata perplessa, eppure mi convinsi che fosse valida, scientifica. Spesso dimentichiamo che il posto della verità è frutto delle personali esperienze e non di qualche assunto convenzionale. Ma quella volta, lo dimenticai anch'io…
Dicevo che ho sempre avuto l’impressione che non avrei potuto abitare che la mia città.
In quarta elementare con le maestre si decise di omaggiare Roma organizzando uno spettacolo nel teatro della scuola. Ho in mente una splendida performance di un mio compagno nei panni del “Bionno Tevere”. Ricordo di molti di noi, divertiti ad interpretare grossi topi e i lunghi applausi alla fine. Fu un grande successo. Scrissero di noi anche i giornali. Da lì nacque la mia passione per il Giappone: creai anche una specie di libricino che raccoglieva scritti ed immagini rappresentative di quella cultura. Non chiedetemi quale sia il nesso ma penso che quell’evento mi aveva fatto sentire importante e così mi interessai alla mia passione, la scrittura, e alle mie curiosità, la cultura giapponese. Dopo qualche tempo smisi con il Giappone e mi dedicai alle fiabe, ne inventavo moltissime sulla frutta, dando la parola a pere, mele, kiwi e cocchi. Peccato averne perso ogni traccia.
Qualcuno ha detto che quando nasciamo siamo già diventati oggetti della cultura in cui viviamo. Il nostro nome, come ci vestiamo, quello che pensiamo, le abitudini: è tutto un prodotto culturale. Anche il nostro corpo lo è. Pensate a chi è meno fortunato, a chi è destinato alle guerre, alla fame, all’ignoranza. Se non ci fosse l’integrazione, se non avessimo abbattuto i muri, saremmo tutti solo figli del posto in cui siamo nati, della sua cultura, anche quando non è giusta.
Vivere a Roma invece mi ha permesso anche questo: di stare in una dimensione cosmopolita, di incontrare tante razze e culture differenti. Perché Roma è una ricchezza da condividere. Ogni posto è ispirazione qui.
Eppure se fossi nata in un’atra epoca, l’avrei scelta di nuovo.
Roma è di tutti, con le sue strade, i sampietrini, le fontane, i ponti, il Fiume.