Foto - Quadro di Claudio Bianchi

Non ho mai creduto al bacio del sole senza aver prima sudato un po'... Né ai fazzoletti impigriti da certe lacrime di metallo. 

Io non piango, scriveva il maestro Califano.

“...Io nun piango pe' quarcuno che more.Non l'ho fatto manco pe 'n genitore. Che morenno m'ha 'nsegnato a pensare.Non lo faccio per un altro che more...”.

E no, io piango difronte alla vita che se ne va. 

Piango nelle facce a singhiozzo tra felicità e dolore. Per la sete di esserci, in questo tempo di acquazzoni e torride estati.

Piango per l'arbitro che ha già  fischiato.

Per un calcio di rigore non battuto.

Piango per la notte senza luna.

Per i tramonti rubino.

Per le carezze perse.

Io piango. 

 

Ho paura!!!”

 

Era svenuta in macchina e da quel giorno non era più la stessa.

Schizofrenia catatonica.

Una malattia degenerativa senza scampo, in cui nemmeno l’elevato numero di farmaci avrebbe potuto rallentare una fine già scritta. Quando anche la giovinezza è troppo poco per immaginare che verranno altre primavere. 

Quattordici anni appesi al bilico di un semaforo tra l’arancione e il rosso. Che non era ancora scattato ma che faceva già tremare tutti i colori.

In questo lungo tempo, nessuno avrebbe potuto immaginare quello che è stato.

 

Un’apnea sospesa aveva addormentato Sofia in un letargo temporaneo.  

Una stagione eterna di insensibilità al tutto. 

Come quando si sta chiusi in una clessidra che non si riempie mai. E che ti lascia in tregua, mentre si prepara a scatenare l’inferno.  

 

L’aveva detto: “Ho paura!!!” Ma cosa poteva accaderle?

 

Quando i medici prescrissero la cura, la situazione iniziò a peggiorare. 

Grandi silenzi interrotti da prolungate assenze scandivano le sue giornate. 

Uno stato a metà tra il sonno e la veglia, in cui tutto sembrava ancora in vita. 

Aveva a che vedere con la stanchezza? 

Si stava arrendendo?

(“Ho paura!”)

 

Nella cameretta erano rimasti solo i muri bianchi.

Sopra aveva scritto: “SOFIA C’È”.

 

Ai colloqui in ospedale, continuavano a somministrarle le terapie. 

Avevano spiegato: “nella schizofrenia catatonica, Il paziente assume sembianze da statua. È normale che sembri immobile…”

Ma tornati a casa, di nuovo quel muro “sporcato”.

 

Io piango…

 

Fu una dottoressa esterna all’ospedale a fermare tutto.

Disse che era necessario interrompere la cura. Che non c’era nessuna malattia. Che Sofia si comportava come alcuni animali, quando per sfuggire all’attacco, si fingono morti per non diventare la preda.

“SOFIA C’È!”

I suoi attacchi di panico erano talmente forti da farla apparire inespressiva. Ma Sofia voleva vivere. E aveva trovato l’unico modo per farlo.

 

Quando mi hanno raccontato questa storia ho pianto.

 

Ho pensato a tutti i fantastici mondi di una ragazzina, molto più adulta di tanti altri. 

L’ho immaginata volare tra la paura, guardandola dall’alto, per sbeffeggiarla. L’ho vista correre come una gazzella che affama il suo leone.  

Con la corona in testa.

Facendo strada a una ricchezza  che non ha bisogno di monete per brillare. 

Che è più forte di mille eserciti dell'oro. E che abbatte tutti i luoghi comuni, con quel coraggio che spesso gli uomini dimenticano. 

 

Sofia non voleva morire.

 “SOFIA C’È!”