Paolo Benvegnù si assume il compito di rompere il ghiaccio e ci riesce magistralmente, grazie all’esperienza e la classe consolidate nel corso dei decenni. Porta sul palco di Villa Ada H3+, album che segue Hermann e Earth Hotel nella trilogia che punta dritta all’anima di chi canta e dell’ascoltatore.

H3+ corrisponde non solo ad un’autocitazione relativa ai precedenti album della trilogia, ma anche e soprattutto allo ione triatomico d’idrogeno, definito come la molecola più comune nello spazio interstellare. È proprio qui che ci conduce questa metaforica astronave: nello spazio interstellare, guidati dalla voce di Benvegnù veniamo proiettati alla ricerca di un distacco, di una profondità, una lontananza che permettono un’analisi tanto lontana dalla terra e da noi stessi, quanto più legata alla nostra interiorità.

Sotto al palco, immersi nella folla trepidante, nessuno di noi si preoccupa di quando comincerà il “vero” concerto, perché quel concerto è già iniziato. Tutti assistiamo incantati alla passione e alla profondità emanate da quest’odissea contemporanea, ricambiando, da parte nostra, con applausi e riconoscenza verso un artista che prima con gli Scisma ed in seguito da solista, ha espresso e tuttora esprime un altissimo livello concettuale e musicale.

Mani giunte, voce sincera e capelli sul viso: «Grazie. Veramente, grazie per essere qui».
Si presenta così Motta, davanti alle migliaia di persone accorse per l’ultimo concerto legato al disco La Fine dei Vent’anni. Dopo la fine del tour segnata dal tutto esaurito all’Alcatraz di Milano, la partecipazione al concerto del Primo Maggio e successivamente il live al Biografilm Festival di Bologna, arriva la data romana che in tanti aspettavano, nella splendida cornice del laghetto di Villa Ada.
«Vi presento la gente che ho scelto in dieci secondi. Più di cento date abbiamo fatto, non abbiamo litigato una volta, un motivo ci sarà.». Insieme a lui sul palco la sua band, o come la chiama lui, “famiglia”: Federico Camici al basso, Cesare Petulicchio alla batteria, Leonardo Milani alle tastiere e Giorgio Maria Condemi alla chitarra. Sin da quando entra sul palco fino alla fine del concerto Motta non perderà occasione per saltare addosso a loro, baciarli e abbracciarli; quasi come a condividere quegli abbracci con tutto il pubblico presente.

Le atmosfere riflessive e delicate che compongono il disco si perdono, o quantomeno mutano: l’esibizione live è un flusso dinamico di emozioni, rabbia e salti, urla e sospiri, momenti di puro cantautorato e contaminazioni noise che consentono ai brani di trascinare l’ascoltatore fino in profondità.
Svariati minuti di loop  rendono le melodie un mezzo e non più il fine, permettono di addentrarci fino in fondo nel mondo di chi canta e vedere con i suoi occhi l’amarezza, la rassegnazione, ma anche la consapevolezza che guidano questa fine dei vent’anni. Il tutto condito da un’energia non scontata.
Motta si preoccupa di coinvolgere il pubblico ogni volta che gli è possibile, quando le mani non sono occupate a suonare la chitarra o le percussioni e quando lui non è impegnato a saltare addosso ai componenti del gruppo. E il pubblico risponde.
Nella città che l’ha adottato il calore viaggia in direzione biunivoca tra sopra e sotto il palco, con prevedibili picchi su canzoni quali “Del tempo che passa la felicità”, “Prima o poi ci passerà”, “Roma stasera” o “Sei bella davvero”, introdotta da un ringraziamento alla madre «che mi ha insegnato la bellezza dell’essere donna». “La fine dei vent’anni” registra forse il momento di vicinanza più assoluta tra il cantante e l’audience, dopodiché rivela: «Sto scrivendo delle nuove canzoni. Vorrei far uscire un altro album senza farvi aspettare altri dieci anni, altrimenti il titolo sarebbe scontato.».

A fine concerto rullante e chitarra sono stati lanciati per terra. Poi il turno dei ringraziamenti, fra tutti quello a Riccardo Sinigallia, «che per un periodo è stato più importante di mia madre», produttore del disco e co-compositore di alcuni brani dell’album.
Nell’aria rimangono la carica di Motta, che ormai ha contagiato tutti, e alcuni momenti di grande intensità. Con un bicchiere nella mano e la sigaretta nell’altra ora fissa il pubblico, quasi come a voler imprimere questo momento nella sua memoria e nella nostra. E ci riesce.