Dopo tanto clamore, e dopo aver conquistato, come miglior film, il Leone d'oro all'ultima Mostra del cinema di Venezia, dal 3 ottobre possiamo finalmente goderci Joker al cinema. Se dovessimo descrivere il film di Todd Philips in tre parole, potremmo sicuramente definirlo: disturbante, provocatorio, anticonformista. Ma la verità è che è molto di più di tutto questo.

Innanzitutto, dobbiamo partire dal presupposto che ci troviamo di fronte ad un film che si vuole distaccare completamente dai cinecomic. Joker non è certo il classico film tratto dai fumetti. No. È un racconto tragico che scrive un capitolo a sé stante sul personaggio DC Comics: immagina le origini della crudeltà perversa che ha formato il villain per eccellenza. La sua deriva violenta è la svolta di un passato di emarginazione e sopraffazione.

È il riscatto di chi ha subito prevaricazioni e violenze per tutta la vita. Quello di Philips vuole essere un film d’autore, un romanzo di formazione che ci  racconta quello che ha reso Joker ciò che è, oltre a descrivere un tipo di odio che può emerge solo da sogni calpestati  con indifferenza, e da persone continuamente rifiutate dalla società. Joker è soprattutto  studio dell'umano, nelle sue volte psicologiche ed esistenzialistiche.

 Sicuramente il motore di tutta la pellicola è Joaquin Phoenix, che ci regala un Joker irascibile, febbrile, dallo sguardo inquieto  e tormentato, e  ovviamente dalla  risata ridondante. La sua interpretazione riesce a toccare intense sfumature di dolore e alienazione, grazie alle quali rende il pubblico pienamente partecipe al dramma del personaggio.

La storia che ci viene raccontata si apre con un’ambientazione sporca e noir, siamo nel 1981, in una Gotham City sempre più preda di degrado, disuguaglianza sociale, e criminalità. L’estetica della strada che possiamo notare, ha come modello dichiarato Taxi Driver di Scorsese. Non a caso, Phillips ha girato il film a New York: la sua Gotham City è la New York City lercia e fuori controllo dei primi anni ‘80, con la criminalità che dilaga, e i vicoli sudici e malfamati. In questa città Arthur Fleck (Joker) ha uno stile di vita alienato: vive con l'anziana madre, Penny, in un appartamento dei bassifondi. Oltre che di una perenne depressione, Arthur soffre di un raro disturbo neurologico che gli provoca improvvisi e incontrollabili attacchi di risate, specie in momenti di forte tensione. Il suo sogno è quello di diventare un cabarettista, ma la mancanza del talento necessario lo costringe a guadagnarsi da vivere come pagliaccio, e ad arrendersi ad una routine squallida e insoddisfacente. Proprio nel tentativo di ribellarsi a questa sua esistenza, finisce per diventare una delle peggiori menti criminali della città.

Una presenza costante nel film è quella dei media, di giornali e telegiornali, che senza dubbio rappresentano l’opinione pubblica che opprime e giudica con arroganza il nostro protagonista. Tra tutti, il programma che ha più influenza su Arthur Fleck, è un talk show condotto dal suo presentatore preferito, Murray Franklin (Robert De Niro), che contribuirà al crollo psicologico del protagonista e condurrà la storia al suo necessario epilogo:

«Cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario con una società che lo abbandona e poi lo tratta come immondizia? Te lo dico io che cosa ottieni: ottieni quel cazzo che ti meriti ».

Il modo in cui davvero possiamo definire Joker è: atto di ribellione. Il nostro protagonista è il vessato che invece di farsi martire, si fa vendicatore e carnefice. È il pugno levato di chi ha preso troppi pugni. È la rivolta degli emarginati contro una società che ghettizza e cuce addosso le maschere da diverso. In definitiva, Joker vuole essere un poetico inno alla diversità, ancora estremamente necessario nel mondo di oggi.