Nel corso della trasmissione “TONI & Motivi” in onda lunedì 20 gennaio 2020 sull’emittente radiofonica pratese “White Radio”, abbiamo intervistato a Roma il Maestro Tommaso Le Pera, il fotografo del teatro italiano.

Fotografo da sempre (padre e zio fotografi), dopo una prima esperienza in campo cinematografico e televisivo, attratto dal mondo teatrale, abbandona gli altri settori per dedicarsi unicamente alla sua passione: il teatro di prosa. Nato in un paesino dell’entroterra calabrese, a vent’anni lavora già come fotografo con il padre nella bottega di famiglia. Poi si trasferisce a Roma a metà degli anni sessanta, diventando in breve tempo un fotografo di fama internazionale. Ecco l’intervista che il Maestro ci ha rilasciato.

D. Si vedono tante belle foto di professionisti. Quanto incide l’effetto fortuna, mi riferisco alla cattura del momento giusto, anzi proprio dell’attimo? Oppure la percentuale più alta è la professionalità?

R. Magari in altri generi fotografici si, ma per quanto riguarda la fotografia di teatro nulla è dovuto al caso. Per quanto mi riguarda, prima di affrontare fotografie di scena, di spettacolo, c’è uno studio molto approfondito, nel senso che leggo i copioni, parlo col regista, col tecnico delle luci, col costumista e con gli attori. Quindi vedo le prove, che è la cosa più importante prima di affrontare uno spettacolo. E’ tutto calcolato, tutto deciso, tutto scientifico. La fortuna in questo caso non esiste, assolutamente.

D. In scene che non prevedono molta luce, che è un elemento dominante in una fotografia, qual è la soluzione tecnica?

R. Interviene l’esperienza del fotografo, perché purtroppo a teatro non si può intervenire, nel senso di far aumentare la luce, perché bisogna assolutamente rispecchiare quello che avviene sul palcoscenico. Quindi se qualcuno altera le luci o cambia le posizioni degli attori, allora non è più lo spettacolo.

Il mio successo è stato proprio questo, di fare delle fotografie in movimento. Fino alla fine degli anni sessanta tutte le fotografie teatrali erano fatte in posa, nel senso che il regista sceglieva quei 10-15-20 momenti salienti dello spettacolo; a quel punto bloccava la compagnia e c’era un fotografo, non necessariamente teatrale, anche perché non esisteva questa specifica attitudine. Allora il fotografo “scattava” e poi si andava avanti, e di conseguenza tutte queste fotografie teatrali dell’epoca erano tutte molto statiche, non rendevano l’anima dello spettacolo. Nelle fotografie di un certo periodo gli attori addirittura guardavano l’obiettivo, una cosa stranissima per uno spettacolo teatrale. Quindi, dovendo lavorare di nascosto, ho “inventato” la fotografia dinamica.

D. Lei è l’”inventore” della fotografia dinamica. Ci può spiegare in maniera più dettagliata questa tecnica?

R. Sono arrivato dalla Calabria a vent’anni, e non conoscevo nessuno nell’ambiente teatrale. Mi aggiravo la sera nei vari teatri di Roma con la macchina fotografica nascosta sotto la giacca, perché ovviamente non si può fotografare durante lo spettacolo, per evitare di disturbare attori e spettatori. Riuscivo a scattare 3-5 immagini al massimo e poi venivo allontanato per questa ragione, essendoci all’epoca macchine molto rumorose. Quando mi veniva bene una fotografia, la mandavo ai diretti interessati, agli attori e ai registi. E devo dire che queste fotografie sono piaciute subito, perché erano abbastanza diverse da quelle che si facevano all’epoca. Con questo sistema ho “inventato” questo modo di fotografare, che rende il “pathos” della recitazione, “invenzione” che è stata imitata dagli altri fotografi.

D. In un’intervista, durante una mostra, la giornalista le ha chiesto: <<Quali sono le foto più belle esposte o scattate?>>. Lei ha risposto: <<A me piace pensare allo spettacolo che fotograferò domani. Queste sono già passate>>. Ciò fa capire che c’è sempre qualcosa di più bello che può avvenire.

R. E’ la sacrosanta verità. Gli spettacoli passati sono già stati fatti, quindi per me è una cosa ovvia. Non so che cosa mi si presenterà sul palcoscenico di domani. Senza contare che sono molto attento alle novità. A me piace cambiare, piace anche cambiare lo stile della fotografia. Anche perché cambiano i gusti, cambia l’estetica fotografica, cambiano gli attori, ovviamente cambiano gli spettacoli. Quindi occorre assolutamente adeguarsi. Gli spettacoli che ho fatto sono passati.

D. Un giovane, un appassionato di fotografia che volesse seguire le sue orme, e quindi diventare un fotografo teatrale, che tipo di preparazione specifica deve seguire per avvicinarsi a questo tipo di specializzazione?

R. Alla base di tutto c’è l’amore per la fotografia e l’amore per il teatro. Si deve assolutamente studiare tantissimo. La fotografia si può imparare, tecnicamente parlando, ma la fotografia teatrale, che dà tantissime soddisfazioni ed è molto gratificante, si può imparare soltanto sul campo. Si deve incominciare a fotografare le compagnie minori, perché è difficile avvicinarsi subito ai grandi nomi, alle grandi compagnie, in quanto il teatro è un circolo chiuso; tutti i teatranti non a caso hanno quasi sempre gli stessi scenografi, gli stessi costumisti, gli stessi tecnici delle luci. Quindi bisogna cercare di entrare in questo cerchio, partendo dal basso, con le compagnie minori. E’ molto importante lo studio del teatro. Se si fotografa in modo freddo, magari verranno si delle fotografie tecnicamente perfette, come consente facilmente il digitale. Però se non c’è l’anima dello spettacolo, il “pathos”, si faranno solo delle fotografie molto belle, e nient’altro.

D. E’ importante, quindi, conoscere la commedia, la rappresentazione che si dovrà fotografare, gli spazi, il regista, gli attori?

R. Se si vuol far bene questo lavoro è assolutamente necessario conoscere personalmente ogni singolo attore. Questo è difficilissimo, ma facilita le cose in modo incredibile. I comuni mortali hanno delle fisime, a maggior ragione gli attori che ci mettono la faccia. Quindi ogni attore vuole essere rappresentato al meglio, ed è giusto ed umano che sia così. Però nessuno di loro si permette di suggerire come vuol essere ripreso. Quindi sta nella psicologia del fotografo capire se un attore vuol essere ripreso a sinistra invece che a destra, dall’alto invece che dal basso, e così via. Bisogna dire che le fotografie che servono alle compagnie vanno effettuate quasi sempre dalla prospettiva di uno spettatore. E’ importante considerare che molti fotografi miei colleghi, soprattutto giovani, fanno uno sbaglio fondamentale. A teatro non bisogna fare gli artisti, perché di artisti ce ne sono tanti sul palcoscenico. La fotografia di scena deve rappresentare uno spettacolo. Quindi una qualsiasi persona che guarda una fotografia di scena, e capisce da una singola fotografia di scena di che spettacolo si tratta, allora quella è una fotografia riuscita. Le fotografie mosse, strane, a teatro non servono assolutamente a niente, perché il regista e le compagnie vogliono le fotografie dove si legge veramente lo spettacolo. Ciò non toglie, però, che parallelamente a questo genere di fotografie, documentaristiche, chi vuole può anche farne di un altro genere. Anch’io, per esempio, quando mi capita, faccio anche altre fotografie da non mostrare nemmeno alla compagnia, e che poi magari mi serviranno successivamente per esposizioni, pubblicazioni ed altro. Però non bisogna assolutamente cercare di fare l’artista in mezzo agli artisti.

D. Abbiamo accennato alle prime macchine fotografiche, rumorose, nel contesto del teatro che non ha una luce che consente sempre la realizzazione di belle foto. La nuova tecnologia può aiutare la fotografia teatrale?

R. E’ cambiato tutto. Una volta le sensibilità delle pellicole erano molto ridotte. Quando ho cominciato a fotografare a colori c’era addirittura la 100 ASA, poi fortunatamente è arrivata la 400 ASA e poi la 800 ASA, facilitando le cose. Però, dato che generalmente la luce è molto bassa, si era costretti ad adoperare sempre dei cavalletti molto pesanti, con una scarsa possibilità di movimenti. Con il digitale è tutto cambiato. Già le macchine sono tutte meno rumorose. Ce ne sono alcune nelle quali è impercettibile il rumore dell’otturatore. E poi si può arrivare ad una sensibilità inimmaginabile. Quindi si possono tranquillamente fare fotografie teatrali senza il cavalletto. In questo il digitale ha aiutato moltissimo. Quindi è cambiata la tecnologia, è cambiato il modo di fotografare, ed è stato tutto facilitato per il fotografo. Dal momento che fotografano tutti, anche col telefonino, purtroppo questo è un mestiere che finirà!

D. Quanto gli ambienti della cosiddetta avanguardia teatrale, le cantine romane, hanno rappresentato per lei un tipo di formazione che poi è diventato professionale?

R. Per me è stato fondamentale arrivare a Roma in quegli anni, parlo della fine degli anni sessanta – inizio settanta. In quell’epoca c’era un fermento culturale e teatrale e Roma incredibile. In ogni piccolo spazio, ogni cantina, c’era un gruppo teatrale alla ricerca di forme nuove di esprimersi teatralmente. Quindi per me era perfettamente aderente questo tipo di teatro alle fotografie che volevo fare. Non volevo fare fotografie statiche, ma diverse. Sono capitato a Roma proprio nel momento più fantasioso dal punto di vista teatrale, e di conseguenza fotografico. Perché fotografare anche gli spettacoli di Memè Pertini, Giancarlo Nanni, Mario Ricci, Giancarlo Sepe, per me è stata una cosa molto illuminante, formante e veramente gratificante, perché alla fine sono le fotografie che volevo fare.

D. Per far arrivare a tutti questo tipo di arte, bellissima, quanto è importante l’editoria per la fotografia professionale e di altissimo livello come la sua?

R. Come si suol dire: “Il teatro è scritto sull’acqua”, nel senso che una volta finito lo spettacolo le compagnie si sciolgono, gli attori sono alla ricerca di nuove scritture, le scene vanno al macero, i costumi tornano in sartoria. Quindi, di quello che è avvenuto sul palcoscenico, di uno spettacolo teatrale, non rimane niente, se non qualche locandina e le fotografie di scena. Continuo a fare questo lavoro per perpetuare la storia di questa gente che viene dimenticata con una facilità estrema. Quindi ho potuto constatare che col passare degli anni anche uno spettacolo brutto prima o poi serve, serve a veder l’editoriale, serve a vederlo storto. Ho la fortuna di aver incontrato una casa editrice che ha sposato questa mia passione per il teatro, e abbiamo creato una collana di libri su personaggi teatrali come, tra gli altri, Gigi Proietti, Tato Russo, Gabriele Lavia, e speriamo di andare avanti, perché è il solo modo per ricordare questi grandi personaggi della cultura e del teatro italiano.