Che sarebbe finita così, dopo Sepang, se lo aspettavano in molti.

Quel clima “campanilistico” di speranza e furia agonistica che aveva avvolto tutti i sostenitori di Valentino Rossi è andato via via scemando, giro dopo giro, in quel di Valencia, mentre si osservava nascere e morire una gara che molti faticano a non definire “strana”. Una gara di sicuro ovattata, tanto pubblicizzata e attesa, ma probabilmente così chiacchierata dai “media” proprio perché aveva perso più della metà del suo fascino dopo il “fattaccio” della Malesia. E la rimonta impossibile è rimasta tale.

Il “giorno dopo” è abbastanza mesto per chi ha creduto che Rossi potesse farcela ancora una volta (categoria in cui mi inserisco con sincerità) ma lo è soprattutto per chi questo sport lo vive da tanto tempo, lo assapora e lo studia con dedizione, ed è sempre stato fiero, probabilmente, che non si fosse ancora piegato a quella regola “non scritta” per cui la “vittoria valga quanto una sana sportività e una lotta sincera”.

Senza fare dei “falsi moralismi”, e chi ne sa più di me può confermare, la Moto Gp non è mai stato uno sport per “buonisti” e per “anime candide”: ci sono state nella sua storia scorrettezze, ci sono stati episodi spiacevoli, ci sono state scaramucce. Ma quello che forse lo distingue da quasi tutti gli altri sport motoristici è che tali episodi non sono mai andati oltre ad un certo limite. Prendendo in esame Rossi, ad esempio, sarebbe da stupidi affermare che la sua carriera sia stata sgombra di episodi controversi: Valentino è un pilota che, al di là dell’aspetto tecnico, non ha mai “tirato indietro la gamba”, usando un gergo puramente calcistico. Ha affrontato grandi piloti, ha vinto e perso, ha spinto fuori ed è stato spinto fuori, ha fatto sorpassi cattivi e ha subito sorpassi decisi ma non è mai andato oltre a questo. Non ha mai travalicato il grande “duello a due” per intendersi, in cui vince chi tira prima fuori la pistola e spara. Sarà che forse, negli ultimi anni escludendo le due stagioni in Ducati, si è sempre trovato a vincere o ad “essere vinto” e non ha mai sperimentato il ruolo dello “spettatore non pagante”. Ha fatto errori insomma, ha giocato col limite della correttezza a volte, ma sempre sfidando a viso aperto il contendente di turno.

 

Questo vale per Rossi e vale per tanti altri piloti, anche quelli che si sono trovati dentro a quel ciclone, chiamato VR46, che dal 2000 fagocita attenzioni e riflettori a discapito di tutto e di tutti. Da Biaggi a Gibernau, da Hayden a Stoner, tutti nemici “abbattuti” nonostante abbiano, nel corso della loro carriera, conquistato molte vittorie prestigiose. Eppure nessuno di loro, portato fino all’esasperazione da quella personalità così ingombrante, ha mai pensato che si potesse arrivare fino a questo punto. Fino a ostacolare qualcuno per pura soddisfazione personale.

 

Arrivando al nocciolo della questione ciò che è successo a Valencia non è stato brutto solo per chi sostiene Rossi ma soprattutto per chi sostiene il “motociclismo”, lo spettacolo e la sacra teoria della “lotta libera, sempre e comunque”. Perché il bello della Moto Gp è anche questo: è la sincerità di una battaglia serrata nonostante tutto, nonostante le differenze tecniche e le motivazioni, l’aspirazione al primo gradino del podio senza guardare in faccia nessuno. Ma da ieri tutto questo, a mio avviso, è stato messo in discussione.

 

La premiata ditta “Marquez&Lorenzo”, dalla quale il maiorchino ha solamente guadagnato mantenendo anche un’immagine più o meno “pulita”, è stato uno spettacolo brutto, che mi ha deluso profondamente. Già prima di Sepang, dell’incidente e del polverone che si è alzato dopo, e nonostante il mio “tifo” per Valentino, ho sempre mantenuto una sorta di dubbio sulla reale volontà di Marquez di ostacolare Rossi per pura soddisfazione personale: avevo negli occhi ancora quel pilota dai sorpassi violenti e dalla guida scomposta che col sorriso sverniciava chiunque gli passasse di fronte. Un pilota giovane ed estremamente forte, potente, deciso, che aveva solamente imbroccato una stagione sfortunata. I miei dubbi erano reali e la gara di Valencia sarebbe valsa come prova del nove: Marquez poteva smentirci tutti, poteva fare la sua corsa come asseriva di aver sempre fatto e sbatterci in faccia la cruda realtà che “Rossi si fosse totalmente sbagliato”.

 

Purtroppo questo non è successo. Vederlo controllare la coda di una Yamaha veloce, ma non troppo, per trenta giri è stato uno spettacolo a tratti ridicolo: forse fa bene Rossi ad asserire che “lo ha fatto perché poi potesse rivederselo”, un modo per dirgli “questo è tutto per te mio caro Vale”. Non c’è altra spiegazione ad un tale atteggiamento quando sotto al sedere si ha una moto a postissimo, veloce e pronta ad accompagnarti nei sorpassi più azzardati. E volendo anche credere che il passo dei due spagnoli fosse identico al millesimo nell’arco di un’intera gara (rarità quasi eccezionale ma possibile) perché non azzardare minimamente un attacco? Perché non mettere pressione con qualche traiettoria più stretta, qualche “sportellata” d’avvertimento? I quattordici sorpassi con Rossi a Sepang dove sono finiti? La voglia di combattere, la dichiarazione per cui “farò di tutto per vincere questa gara” dove sono andate a finire? Vedere poi il povero Pedrosa, a cui invece dovremmo fare un monito, tentare in extremis quel tanto agognato attacco per farsi quasi sbattere fuori pista, con la tanto conosciuta veemenza di Marquez, è stata la firma su un atto che era già palese a tutti.

 

A mio parere continuare a discutere sul fatto che il pilota della Honda abbia o meno favorito la vittoria finale di Lorenzo è inutile: è cosa chiara, dati alla mano e avendo osservato l’andamento di una gara in cui i due si sono accompagnati vicendevolmente a distanze irrisorie in termini di tempi. Conoscendo Marquez poi, pilota capace di recuperare in un giro quasi un secondo e di infilare chiunque senza pietà all’ultima curva (vedi Gran Premio di Philip Island 2015) direi che i dubbi dovrebbero essere del tutto fugati. Aggiungiamoci anche la quanto mai particolare pratica di farsi indicare, tramite i cartelloni che vengono esibiti dai tecnici sul rettilineo e riportanti i tempi di distacco tra i piloti, non solo il distacco dall’inseguitore Pedrosa ma anche quello tra quest’ultimo e il pilota ancora dietro. Quasi un voler controllare la situazione così da decidere con calma, avendo Lorenzo costantemente a tiro, il da farsi.

 

Queste non sono che una serie di considerazioni, è chiaro, da parte di una persona che non è tanto amareggiata dalla sconfitta di Rossi ma dalla fine che ha deciso di fare uno come Marc Marquez. Ridursi a “bodyguard” di un pilota concorrente, col quale tra l’altro non corre neanche buon sangue, che cavalca una moto di una casa da sempre in forte concorrenza con la Honda è una cosa triste, inspiegabile e curiosa. Il mio stupore và tutto a finire lì, a quella danza a due che non porta mai a nulla, che si ripete stancamente per trenta passaggi senza il minimo accenno di vita, di motociclismo.

 

Le dichiarazioni del post-gara del neo-campione del Mondo, Jorge Lorenzo, sono solamente la ciliegina su una torta a mio avviso molto amara. La sua abilità da pilota, purtroppo, non è pari alla sua intelligenza tattica di fronte a telecamere e giornali: Lorenzo ha conquistato il Mondiale a suon di vittorie ( 6 + Valencia) nonostante tutto ha vinto con merito. Ma ringraziare i due piloti Honda che non “lo hanno disturbato” e ampliare il suo Mondiale Piloti ad un “Mondiale della Spagna intera” è una caduta di stile, l’ennesima e stucchevole frecciatina verso Rossi. I Mondiali, nel motociclismo, sono premi individuali: non ci sono Mondiali per Nazioni, non ci sono “piloti che aiutano”, non ci sono nazionalismi da difendere. Tutto questo, poi, dopo aver puntato il dito ripetute volte, tanto da arrivare a fare un proprio ricorso al Tas di Losanna, contro il compagno di squadra reo di “aver ostacolato illegalmente Marquez che non faceva altro che condurre la propria gara” (Sepang). Dove sta allora la verità: bisogna fare la propria corsa o no? Perché, dati alla mano, le Honda avrebbero battuto Lorenzo senza grossi problemi e Rossi adesso sarebbe Campione del Mondo.

 

E tra un Marquez che prova a difendersi facendo l’offeso e una Honda che s’impettisce indignata, ad alimentare una querelle che durerà ancora per molto ci pensa ancora Lorenzo, commentando le parole al veleno del compagno di squadra con un sarcastico: “era arrabbiato per aver perso l’ultima chance di vincere un mondiale”. Parole quanto meno azzardate nonostante l’età del pilota di Tavullia. Qualcuno avrebbe dovuto ricordare a Jorge Lorenzo prima di lui c’è già chi, tra i piloti, ha provato a tacciare Valentino Rossi di essere “finito”, poco talentuoso o semplicemente troppo pieno di sè: il suo nome è Casey Stoner, uno dei piloti più veloci che abbia guidato una Moto Gp negli ultimi anni. A Jerez, nel 2011, Rossi, a quel tempo su una Ducati, azzardò e fallì un sorpasso costringendo l’australiano al ritiro. Quando andò ai box Honda per scusarsi Stoner, che vincerà poi quel Mondiale, visibilmente nervoso gli disse : “Evidentemente la tua ambizione supera il tuo talento”.

 

Siamo al 2015 e dei due solamente uno, a trentasei anni, sta ancora lottando per vincere Gran Premi e Mondiali. E quel qualcuno non è Casey Stoner.

 

Occhio Jorge, il Dottore ha nove vite.