Scritto da Sofia Bartalotta

Dimenticatevi Pulp fiction e Le Iene, con Once upon a time in Hollywood, Tarantino reinventa se stesso, senza però tradire la sua personalità cinematografica: non rinuncia alla sua ossessione per i primi piani di piedi nudi, tantomeno alle sue classiche escalation di violenza.

Il regista con il suo nono film, uscito in tutte le sale italiane il 18 settembre 2019, spalanca una finestra a tinte vintage su un’eccentrica Hollywood di fine anni ’60, e  per qualche ora ci fa vivere tra il febbraio e l’agosto del 1969.

Febbraio 1969: una delle  prime scene con cui si apre il film, vede la coppia Roman Polański (Rafał Zawierucha) – Sharon Tate (Margot Robbie) accolta dai paparazzi all’aeroporto di Los Angeles. Da qui le vicende della coppia saranno raccontate parallelamente a quelle dei protagonisti della nostra storia, Rick Dalton (Leonardo DiCaprio, magistrale per tutta la durata del film) e Cliff Booth (Brad Pitt), intrecciando inevitabilmente realtà e finzione.

Rick Dalton, personaggio combattuto e in piena  crisi interiore, che ci regala momenti più che comici, vive drammaticamente il suo essere un attore in decadenza, ormai al tramonto della sua carriera, dopo aver spopolato nella scena western degli anni ’50. L’attore si alterna amabilmente  tra il vero film e i western che deve interpretare, mettendoci di fronte ad un lampante esempio di meta – cinema, e offrendo a Tarantino l’occasione per esprimere tutto il suo amore per la cinematografia western, con espliciti riferimenti a i cosiddetti spaghetti - western; nota è l’ammirazione del regista americano per Sergio Leone.

Dalton è spesso chiamato a performance molto lontane da quello che ambirebbe a realizzare veramente, ma che è costretto a sostenere pur di non sparire dalle scene. Attraverso il suo personaggio, abbiamo un perfetto spaccato del mondo cinematografico e della Hollywood degli anni ’60, fatta di divi intoccabili e luccicanti e dimenticati attori in declino. Le uniche cose che riescono a consolare Rick Dalton sono l’alcol e la sua villa sulle colline di Hollywood, che, in parte, conferma ancora il suo status di celebrità tra le celebrità, in quella che sarà una sanguinosa Cielo Drive, e che lo rende vicino di casa dei coniugi Polański. Ad accompagnare l’attore nei suoi drammi, troviamo il suo amico, galoppino, e stuntman, Cliff Booth, un personaggio pienamente tarantiniano, condannato ad una vita d’azione e non di pensiero, tanto da avere il coraggio di affrontare in combattimento il temutissimo Bruce Lee; Cliff conduce una vita sregolata, ma a modo suo, fatta di lunghi e solitari viaggi in macchina. A Pitt è affidato il compito di gestire gran parte dei momenti comici del film, tutti perfetti, ben dosati, e che ricordano l’essenza del cinema di Tarantino: umorismo e  ironia uniti ad una buona dose di sangue e violenza. In questo piccolo mondo hollywoodiano, seguiamo anche la parallela vita di Sharon Tate, rappresentata come attrice, donna libera, icona femminile, vicina alla cultura hippie degli anni ’60, moglie di Polański, ma niente di più. Quello della Tate, risulta essere il personaggio meno approfondito, meno rappresentato dal punto di vista introspettivo, e forse ciò che ci saremmo aspettati era proprio questo, un carattere più forte, più incisivo. È un personaggio femminile che viene rappresentato senza grandi particolarità, completamente distante dal fascino e il magnetismo della Mia Wallace di Pulp fiction, o delle numerose donne presenti nei film di Tarantino.

Nella Los Angeles del ’69, accanto a questo piccolo ed esclusivo pianeta cinematografico, nello Spahn Ranch sta crescendo un altro microcosmo, quello della Family di Charles Manson (Damon Herriman). Quello di Manson è un universo allucinato e spettinato, fatto di acidi, sesso, capelli lunghi, di ragazzi randagi e insoddisfatti che riconosco come loro unica famiglia quella che ruota attorno al brillante Charlie, di cui seguono ciecamente idee ed ordini. Come tutti sappiamo, la Family era una comune di ragazzi con problemi familiari e spesso di disadattamento sociale. Manson era da questi considerato un leader religioso, oltre che morale. Alcuni membri della comune credevano che Charlie fosse la reincarnazione di Gesù Cristo e di Satana insieme.

Proprio le idee di Manson, saranno il collante tra i due microcosmi, quello di Hollywood e quello della Manson Family, che crescono parallelamente, fino a che non diventeranno un unico universo la notte dell’8 agosto del ’69, tra le ville di Hollywood, con l’eccidio di Cielo Drive, di cui tutti conosciamo la storia. Fino a quel momento, le vite di tutti i personaggi vengono presentate come microuniversi paralleli, le cui strade convergeranno solo nel finale.

Ma come in Bastardi senza gloria, il film è concepito in chiave ucronica: è una riscrittura e re-interpretazione di eventi storicamente condivisi, per dovere di cronaca. In Once upon a time in Hollywood, Tarantino intraprende un’indagine sul complesso rapporto tra realtà e finzione, il suo cinema diventa il mezzo attraverso cui il reale si trasforma in finzione e la finzione in reale. Tutto il film risulta essere una densa opera meta - cinematografica, in cui il regista sovrascrive continuamente intenti, simboli e pagine di storia. L’essenza del finale, e del film, potrebbe essere proprio nel titolo, in quel c’era una volta, che da sempre ci preannuncia l’inizio di una storia con un lieto fine, in cui i buoni vincono sempre. Tarantino si ispira a un fatto di cronaca, ma alla fine ci ripensa e decide di raccontarci un’altra storia; una storia  che nel mondo ideale del cinema può avere un lieto fine, al contrario di quanto è accaduto nella realtà. Attraverso questo film, e il potere del cinema, il regista si prende una rivincita sulla realtà, la cambia a suo piacimento, rendendo possibile, in una piccola parte della nostra quotidianità, un finale alternativo, a cui conferisce un’eternità cinematografica.

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