L’Artico si sta scaldando più rapidamente di ogni altra regione del pianeta, con una drastica riduzione della copertura di ghiacci, soprattutto estivi, che provoca un repentino aumento di temperatura degli strati superficiali dell’oceano artico.

La riduzione dell’estensione del ghiaccio marino ha conseguenze importanti non solo sui sistemi naturali ma anche sul sistema economico: apre la strada a nuove rotte commerciali sia dal lato americano (il famoso passaggio a Nordovest che ha ispirato viaggi avventurosi e un tempo irrealizzabili) che da quello siberiano (il passaggio a Nordest che interessa moltissimo le economie asiatiche, da qualche anno già utilizzato ma con ritmi di crescita che si prevedono rapidissimi).

L’Artico quindi sta diventando sempre più teatro di nuovi scenari strategici ed economici mondiali e anche l’Italia vuole e può giocare un ruolo di primo piano, con la sua lunga storia di esplorazioni e di ricerca: è stabilmente presente con il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), dal 1997, anno di apertura della stazione Dirigibile Italia, a Ny Alesund nell’arcipelago delle Svalbard.

In generale le regioni polari sono cruciali per la stabilità climatica del pianeta. Oggi, preoccupanti segnali di rapido cambiamento vengono anche dalla Groenlandia, dove nella stagione estiva la calotta di ghiaccio si fonde sia in superficie che alla base ed è interessata da flusso accelerato verso mare, e dall’Antartide occidentale, dove le calotte di ghiaccio si stanno rapidamente ritirando. Questi processi amplificano gli effetti del già preoccupante riscaldamento globale e si ripercuotono su tutto il pianeta. Lo scioglimento dei ghiacci continentali, inoltre, causa un innalzamento del livello del mare globale a tassi che stanno raggiungendo 0.5 cm all’anno e che favoriscono i processi di erosione costiera ormai diffusi a tutte le latitudini.

Artico e Antartide sono regioni fondamentali per il bilancio energetico planetario, per fornire alla macchina climatica il necessario pozzo freddo in contrapposizione alla sorgente calda equatoriale. La presenza di neve e ghiaccio, in termini termodinamici, assolve un ruolo molto importante, perché fino a quando le superfici in queste regioni sono bianche, per la presenza di ghiaccio e neve, quasi tutta la radiazione solare che le raggiunge viene rimandata verso lo spazio. Ma se i ghiacci si ritirano e le superficie scure di terre emerse e oceani aumentano, aumenta anche l’assorbimento della radiazione da parte delle superfici che contribuiscono ulteriormente al riscaldamento con effetti drammatici sull’ecosistema polare e sul clima dell’intero pianeta.

Allo scopo di sostenere le ricerche e gli studi sui cambiamenti climatici e le tecnologie innovative nell’ambito della ricerca polare (robotica e tecnologie digitali, sviluppo di strumenti autonomi marini per osservazioni al di sotto del ghiaccio e droni per misure atmosferiche) nel FOE 2019 sono state assegnate al CNR importanti risorse economiche a cui si aggiunge anche il rilevante finanziamento assegnato al Programma Nazionale di Ricerca in Antartide.

Per comprendere queste preoccupanti tendenze, nel quadro della complessa storia climatica della Terra, e i loro effetti sia alle alte che alle medie latitudini, l’Italia è impegnata, in particolare con il CNR, come appare dal Piano Nazionale della Ricerca (PNR), in rilevanti iniziative e progetti nazionali tra cui:

  • il PRA (Piano di Ricerca in Artico), che con un finanziamento strategico del MIUR dal 2018 si aggiunge al mantenimento dal parte del CNR della stazione artica italiana Dirigibile Italia e delle sue piattaforme osservative nell'Arcipelago delle Svalbard. Il PRA, oltre a promuovere e sostenere la ricerca sulle conseguenze del cambiamento climatico nella regione artica, mira a supportare, in collaborazione con il MAECI, la partecipazione italiana ai più importanti tavoli di coordinamento internazionali sull’Artico.
  • Con il PRA è stato costituito il Comitato Scientifico per l’Artico (CSA) che ha l’obiettivo di elaborare, proporre e gestire il Programma di ricerche in Artico (PRA) per il triennio 2018-2020, al fine di implementare la strategia italiana in quest’area. È composto da rappresentanti del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, da esponenti dei principali enti di ricerca italiani, coinvolti nella ricerca in Artico quali CNR, ENEA , INGV e OGS, nonché da esperti internazionali in problematiche polari. Il CSA è presieduto dal Ministro plenipotenziario Carmine Robustelli, Capo della delegazione italiana al Consiglio Artico ed Inviato speciale per l’Artico del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale.
  • Il Joint Research Center in collaborazione con ENI di Lecce, inaugurato dal premier Giuseppe Conte, allo scopo di sviluppare studi integrati della criosfera terrestre artica, con utilizzo misure in campo, osservazioni satellitari e modellistica numerica su: il rilascio in mare di carbonio organico terrestre e inquinanti in seguito alla fusione del permafrost; il ruolo degli agenti clima-alteranti quali black carbon, ozono e metano sui processi di fusione della neve e del ghiaccio. CNR ed ENI hanno già cominciato a lavorare insieme: due tecnici di ENI sono attualmente a Ny Alesund per collaborare al recupero dell’ ancoraggio MDI e preparare una nuova tipologia di ancoraggio che verrà messo a mare nel 2020 per studiare le sostanze organiche mobilizzate dalla fusione del permafrost nel bacino del Bayelva.
  • il PNRA (Programma Nazionale di Ricerche in Antartide), progetto annualmente finanziato dal MIUR con 23 Milioni di Euro di cui il CNR ha il coordinamento scientifico (ENEA cura gli aspetti logistici) delle attività che si sviluppano sia sulla costa del Mare di Ross (stazione Mario Zucchelli-MZS) sia presso la stazione Italo-Francese di Concordia a Dome-C, 1000 km all'interno sul Plateau East Antartico, sia nell’oceano Antartico attraverso campagne oceanografiche dedicate.

Il CNR è tra i membri fondatori di SIOS (Svalbard Integrated Arctic Earth Observing System), un’infrastruttura di ricerca a scala regionale per osservazioni a lungo termine nella regione delle Svalbard con lo scopo di studiare il sistema climatico con il necessario approccio integrato e multi-inter-disciplinare.

Per meglio operare nel campo strategico della ricerca polare, organizzare le attività dei propri esperti nella ricerca scientifica in ambienti alle alte latitudini, e fare da hub verso la comunità polare di altri Enti e Università italiani, il CNR ha recentemente avviato il nuovo Istituto di Scienze Polari (ISP). L’Istituto ha sede principale a Venezia ed altre tre rilevanti sedi a Bologna, Roma e Messina per un totale di circa cento dipendenti che svolgeranno ricerca in aree polari a tempo pieno.

Attraverso ISP il CNR rafforzerà:

  • la partecipazione a numerosi rilevanti progetti che fanno parte del cosiddetto EU Arctic Cluster (https://www.eu-polarnet.eu/eu-arctic-cluster/): ARICE, iCUPE, INTERACT, EU-polarnet, NUNATARYUK, ICE-ARC;
  • il coordinamento di importanti progetti europei come Beyond EPICA che perforerà a oltre 3.000 metri di altitudine sul plateau antartico, per estrarre una carota di ghiaccio in grado di raggiungere periodi temporali di 1,5 milioni di anni fa e comprendere il comportamento del clima durante e prima dell’inizio delle glaciazioni degli ultimi 800.000 anni.
  • il coordinamento di Ice Memory, un progetto internazionale patrocinato dalle commissioni nazionali Unesco di Francia e Italia, vede impegnati glaciologi di vari Paesi. L’obiettivo principale è creare in Antartide, terra di scienza e di pace, il primo archivio mondiale dei ghiacci provenienti da tutti i ghiacciai del mondo, attualmente minacciati dal riscaldamento globale.

La ricerca ambientale e polare rientra tra le aree strategiche nelle quali sono state operate le stabilizzazioni di molti precari del CNR, che come i concorsi aperti svolti negli anni scorsi, hanno confermato molti giovani ricercatori di talento.

L’Italia è insomma impegnata nella ricerca polare per comprendere le dinamiche delle regioni più rilevanti e delicate per la stabilità climatica della Terra.

 

Storia dell’esplorazione scientifica artica da Nobile ad oggi:

Il 12 Maggio 1926, l’esploratore norvegese Roald Amudsen (che fu anche il primo uomo a raggiungere il Polo Sud nel 1911), Umberto Nobile (Generale della Regia Aeronautica Militare Italiana), il costruttore americano John Ellsworth e il loro equipaggio effettuarono il primo volo, ufficialmente documentato, sorvolando il Polo Nord. La spedizione usò un dirigibile semi-rigido disegnato dallo stesso Umberto Nobile, cui fu dato il nome “Norge”. Lo scopo del volo era mappare un’area sconosciuta tra il Polo e l’Alaska verificando che, contrariamente a quanto alcuni ancora credevano, non vi erano terre emerse.

Allo scopo di sfruttare le capacità de dirigibile per osservazioni scientifiche in Artico, Nobile iniziò a pianificare la successiva campagna del 1928. Purtroppo il governo italiano del tempo diede poco supporto e non favorì la realizzazione di un nuovo dirigibile che doveva essere in grado di trasportare tre volte più peso rispetto al primo. Con l’aiuto di privati Nobile riuscì comunque a produrre un dirigibile di maggiori capacità rispetto al primo e lo chiamò “ Italia”.

Per la campagna del 1928 Nobile pianificò 5 voli, tutti con partenza e ritorno a Kings Bay (Ny-Ålesund) e con lo scopo di esplorare diverse aree dell’Artico. Il team, composto da 16 persone, comprendeva il fisico italiano Aldo Pontremoli, il meteorologo svedese Finn Malmegren, il fisico ceco František Běhounek, e l’idrografo italiano Alfredo Viglieri. Il primo volo avvenne l’11 maggio ma durò solo otto ore per problemi di congelamento ai sistemi di controllo. Il successivo partì il 15 maggio e acquisì rilevanti dati meteorologici, magnetici e geografici per 4000 km verso la terra di Nicola II.

Il terzo volo partì il 23 maggio e raggiunse il Polo Nord il giorno successivo grazie a forte vento di coda. Sulla via del ritorno avvenne l’incidente che fece precipitare il dirigibile. Fortunatamente Nobile aveva equipaggiato il dirigibile con un verricello, zattere gonfiabili in gomma e materiale per la sopravvivenza nel ghiaccio, cosa che salvò parte dell’equipaggio.

Nei decenni successivi, in relazione all'Artico, la figura più rilevante è quella di Silvio Zavatti. Anche lui come Nobile non proviene dal mondo accademico, e' capitano di lungo corso, ma la passione per l'artico lo porta dapprima a Istituire a Forli nel 1944 l'Istituto Geografico Polare e la rivista il Polo, poi tra la fine degli anni 50 e la fine degli anni 60, grazie anche alle relazioni costruite nel frattempo su questa base, a compiere diverse spedizioni nelle terre artiche sia europee che americane con lo scopo di conoscere e studiare le popolazione artiche. Nel mentre nel 1958, pubblica l'Atlante Geografico Polare, vincendo il premio del CNR, Fondazione Vacchelli. Nel 1969 fonda il museo polare che attualmente con l'Istituto e' ospitato a Fermo.

Con lo sviluppo del villaggio di Ny Alesund come una infrastruttura per la ricerca scientifica, la ricerca italiana torna ad interessarsi in modo continuativo all'Artico, durante la prima metà degli anni 90. Da allora diversi progetti europei vengono svolti e costituiscono la premessa per la richiesta di un finanziamento speciale da parte del CNR per sostenere queste attività e aprire una stazione italiana permanente. Il Programma Strategico Artico viene approvato dal CNR nel 1996 con un budget annuale che si aggira tra i 300 e i 400 mila euro, e la stazione Dirigibile Italia viene ufficialmente aperta nel maggio del 1997.

Il programma è stato con finanziato e sostenuto regolarità fino al 2004-2005, quando con la nuova struttura del CNR, le attività polari a partire dal 2007 sono state affidate al Dipartimento Terra e Ambiente. Parte così una nuova fase di sviluppo della ricerca del CNR in Artico e il rilancio della stazione Dirigibile Italia grazie anche alla realizzazione di alcune importanti piattaforme osservative, come la Amundsen-Nobile Climate Change Tower (CCT), che permettono di sviluppare appieno la nuova visione multidisciplinare e integrata che la ricerca in artico va assumendo a livello nazionale e internazionale.

Risultati della ricerca scientifica artica:

In Artico la diminuzione di estensione del ghiaccio marino è di circa il 3% per decade in media per tutte le stagioni (basato su 40 anni di misure, ovvero da quando sono iniziate nel 1979). Si tratta di un trend generale su cui tutti gli scienziati ormai concordano con preoccupazione; questo trend investe anche il fiordo su cui sorge la base italiana.

Un ancoraggio strumentato (mooring) posizionato dal CNR nel Kongsfjorden alle Isole Svalbard misura il riscaldamento delle acque e la stagionalità del ghiaccio marino da nove anni. I dati acquisiti dall’ancoraggio permettono di conoscere la variabilità della temperatura, salinità e altri parametri su tutta la colonna d’acqua per un centinaio di metri di profondità. I dati confrontati con quelli atmosferici misurati dalla Amundsen-Nobile Climate Change Tower, del CNR con cui da dieci anni viene monitorata l’atmosfera.

I dati integrati mare/aria dell’ancoraggio nel fiordo e della torre documentano in Artico un indubitabile aumento delle temperature. Negli ultimi 10 anni (dati SESS Report 2018) la temperatura media dell’aria nel Kongsfjorden è cresciuta ad un ritmo di 1.5°C/decade. Nello stesso tempo si è assistito anche a un aumento del flusso di radiazione infrarosso, flusso molto più marcato, un fattore 10, nel periodo invernale che nel periodo estivo. In termini di trend, abbiamo un aumento tra 1 e 2 W/m2/decade nei mesi estivi e ben 15 W/m2 nei mesi invernali. Tale andamento non solo deriva da una atmosfera più calda ma anche da un profondo cambiamento della nuvolosità e del regime delle precipitazioni, che caratterizza sopratutto i mesi invernali. I cambiamenti nella circolazione hanno influenza sui trasporti di inquinanti e particelle. Qui l'effetto non è tanto nell'aumentare delle quantità di particelle, ma nel mutare delle loro caratteristiche chimico-fisiche cosa che influenza tutti i processi che coinvolgono gli aerosol e in particolare le interazioni aerosol-nubi.

Contemporaneamente, misure in continuo nella colonna d’acqua provano una sempre maggiore “atlantificazione” del fiordo (maggiore intrusione di acque atlantiche, specialmente in inverno) con un incremento della salinità (con un tasso di 0.7 unità per decade) e della temperatura dell'acqua intermedia (4.3 oC/decade) e di fondo (1.6 oC/decade); questa tendenza ha ripercussioni sulla diminuzione della copertura di ghiaccio marino, sul tipo di alghe e, quindi, sulla catena trofica e, più in generale, sull’intero ecosistema dei fiordi. Il Kongsfjorden ha subìto la progressiva perdita della copertura dei ghiacci marini e dal 2010 addirittura il fiordo non gela più in inverno. L'aumento della temperatura di aria e acqua ha anche un ulteriore inequivocabile impatto sulla velocità di fusione dei ghiacciai e sui flussi di materiale solido sospeso che questi portano nel fiordo con la previsione di un aumento degli apporti sedimentari subglaciali.

Il sito osservativo integrato Cnr alle Svalbard dimostra in sintesi che il riscaldamento in Artico è maggiore di quello globale: la temperatura media cresce più velocemente che nel resto del pianeta e nei fiordi essa cresce più velocemente che nel resto dell’Artico. La velocità di riscaldamento dell'acqua è maggiore perchè nei fiordi entra più acqua atlantica, con ripercussioni sulla diminuzione del ghiaccio marino (in alcuni anni, addirittura, i fiordi durante l’inverno non si ghiacciano più sul tipo di alghe e, quindi, sulla catena trofica e, più in generale, sull’intero ecosistema dei fiordi. Tutte le stagioni registrano un cambiamento ma è l'inverno che sta registrando il riscaldamento più rapido. 

L’accelerazione dello scioglimento del permafrost dell’Artico libera gas serra in atmosfera e intensifica il riscaldamento globale. Il permafrost terrestre contiene circa 1.500 miliardi di tonnellate di carbonio organico, essenzialmente resti di biomassa vegetale. Lo scioglimento del permafrost causa pertanto la riattivazione di questa biomassa che determina per via batterica la produzione di gas serra come metano (CH4) e anidride carbonica (CO2). Le paure legate a tale fenomeno nascono da due aspetti centrali: la quantità di carbonio organico presente nel permafrost, oltre due volte superiore al contenuto di carbonio presente in atmosfera prima della rivoluzione industriale; l’amplificazione polare, in quanto i tassi di riscaldamento in Artico sono già superiori rispetto alle medie e basse latitudini. Per queste due ragioni, il permafrost esercita un feedback positivo sul riscaldamento climatico: si stima che alla fine del 2100, il rilascio dei gas serra da parte del permafrost potrà raggiungere il 25% del corrispondente rilascio legato all’uso dei combustibili fossili: un 25% in più che non deriva neppure dalla soddisfazione di un vero fabbisogno energetico antropico.

Uno studio pubblicato dal CNR su Nature Communications si concentra sul permafrost scaricato in mare dai fiumi artici. Precedenti studi hanno evidenziato come le concentrazioni di carbonio organico proveniente dalla mobilizzazione del permafrost, lungo le piattaforme artiche, diminuiscano progressivamente seguendo il trasporto delle correnti. Mentre esiste largo consenso riguardo al fatto che questa diminuzione sia legata a una degradazione batterica, con ulteriore produzione di gas serra, meno chiaro è il tasso con cui il permafrost può essere degradato. Le stime di rilascio/degradazione hanno però delle grandi incertezze intrinseche legate ai limiti della nostra conoscenza del sistema artico. Proprio per questo, nonostante il permafrost venga definito il “gigante dormiente del cambiamento climatico”, i modelli previsionali dell’ultimo report IPCC non lo hanno ancora incluso tra i vari feedback climatici.

Attraverso datazioni mirate realizzate mediante una tecnica innovativa che utilizza radiocarbonio su molecole organiche, è stato possibile ‘cronometrare’ il trasporto del permafrost lungo la piattaforma centro-siberiana. Con sorpresa è emerso che il permafrost rilasciato dal Lena, il secondo fiume artico per estensione del bacino di drenaggio, e trasportato lungo il margine siberiano ha un tempo di residenza centenario-millenario sulla piattaforma. Questo implica che la degradazione e il conseguente rilascio di gas serra da parte dei sedimenti sono processi relativamente lenti. Se da una parte questa è una ‘buona notizia’, in quanto l’impatto rilasciato in mare è in parte mitigato nel breve periodo, dall’altra lo scioglimento e la degradazione del permafrost in oceano avrà comunque un impatto costante e continuato, anche se ridotto, per i prossimi secoli.

L’amplificazione artica impatta anche sui cambiamenti climatici del Mediterraneo:

Come osservato nel recente incontro 5+5 al Miur, i processi in atto nelle regioni polari generano conseguenze negative anche alle medie latitudini. Il Mediterraneo è un altro hot spot del cambiamento climatico, soggetto a forte riscaldamento, onde di calore, cambiamenti del ciclo idrologico e siccità. Il progetto Bluemed coordinato dal CNR dialoga con tutti i Ministeri con competenze sul mare, con la Commissione Europea e con tutti i 22 Paesi mediterranei per favorire la crescita economica dell’area, riducendo gli impatti della forte pressione demografica, del turismo, del traffico marittimo (pari al 25% del traffico globale) e del sovra-sfruttamento della pesca.